L’ATTESA TRA DESIDERIO E DELUSIONE

L’ATTESA TRA  DESIDERIO E DELUSIONE

La promessa di rivedere con più flessibilità la riforma Fornero  del 2011 (che ha elevato l’età per andare in pensione)  da parte dell’attuale governo Renzi, rimodulandone i limiti dell’età di uscita dal lavoro,  sembra non essere stata rispettata, almeno a quanto si legge sulla stampa in questi giorni. Una nuova doccia fredda per tutte le donne e gli uomini  che  speravano in un  cambiamento dei limiti d’età per raggiungere l’obiettivo pensione.  Già nel 2011,  commentando, in un’intervista sulla stampa, da un punto di vista psicologico la legge Fornero,   evidenziai i rischi  probabili che  l’aspettativa negata del desiderio di cambiare vita e di vedere realizzati i sogni di un meritato riposo, si sarebbero potuti  produrre sulla salute psico-fisica delle persone.    Le conseguenze possono investire  la sfera vitale di una persona che vede la propria progettualità  implodere  insieme alla speranza di  cambiamento,  per l’impatto con  il  muro delle logiche dell’ economia e della finanza internazionale   che massificano    le differenze e le diversità di ognuno.

Il lavoro dà dignità, ma non averne il riconoscimento del limite dà disperazione. L’impotenza attiva  passività che va a nutrire una vena depressiva di cui non è possibile  prevederne la profondità.  La pensione riguarda persone che hanno raggiunto già i sessant’anni d’età, ciò significa che le risorse per reagire alle avversità o all’imprevisto non sono le stesse che si potrebbero avere a trenta o a quarant’anni. A volte il lavoro è usurante, poco o per nulla gratificante,  ripetitivo,  che sollecita aggiornamenti tecnologici spesso frustranti per chi non ne ha più l’elasticità mentale, perché, allora, prolungarlo per tempi  psicologicamente incongrui?  Perché non lasciare  che sia facoltativa la decisione di elevare i propri tempi  per  andare in pensione, considerando che le differenze tra il  lavoro e gli individui che lo svolgono sono innumerevoli? Anche la differenza di genere non va trascurata, le donne, per esempio, sono, nel corso della loro vita, impegnate su più fronti (lavoro, casa, figli, genitori anziani,etc.), e più cresce l’età  più  cresce il loro desiderio di  recuperare il tempo per se stesse.

La qualità di vita andrebbe tutelata ad ogni costo, perché la vita è una, ed è un diritto viverla come si desidera dopo trenta e più anni di lavoro.  Purtroppo,  con  l’età che avanza  cresce anche il rischio di  soffrire di patologie che appesantiscono la quotidianità lavorativa con ripercussioni inevitabili  sul benessere generale.  Il dilemma “lavorare per vivere o vivere per lavorare” dovrebbe  trasformarsi nell’ affermazione “poter vivere anche dopo avere lavorato”.

Sira Sebastianelli

psicologa psicoterapeuta

10 maggio “Festa della mamma”

10 maggio festa della mamma

 

10 maggio, un giorno in cui si festeggia la mamma, ma più efficacemente il materno.

È  una giornata in cui si rievoca un’ antica e ancestrale sensazione di nutrimento, cura e calore che appartiene a tutti, anche nel caso in cui  una madre da festeggiare non ci sia  più. Il ricordo indelebile della esperienza del materno è  un’impronta nell’anima che diventa una carta di identità dell’esistenza. Sì, perché la profondità della compressione digitale nell’involucro psichico  produce una differenza sostanziale nel vissuto del materno   in ogni essere umano. Una giornata di riflessione, quindi, per entrare in quest’involucro e recuperare la funzione materna, attivandola dentro di sé, insieme alla cura, al  nutrimento e al calore.

Il termine madre nella lingua indoeuropea ha il significato di misura, di limite, di materia (come sostanza definita da un limite) che in latino e in greco si arricchisce del concetto di curarsi e di medicare. Madre, quindi, “colei che si occupa dei limiti naturali della vita umana” (Rendich,F., Dizionario etimologico comparato delle lingue classiche indoeuropee, Palombi editori, Roma, 2010, pag.283).

In sintesi, la madre  preserva e perpetua  ciò che ha un inizio e ha una fine, cioè la vita. Una cura che dura nel tempo  e che ogni individuo dovrebbe avere nei confronti di sé stesso durante la sua esistenza, senza deleghe, ritrovando l’illimitata accoglienza  materna. Sembra tutto semplice, ma, in effetti, non è così. L’attivazione della funzione materna interiore, per gli uomini come per le donne, trova l’ostacolo della difficoltà a rivolgere verso se stessi ciò che è più facile rivolgere agli altri.  Per esempio, è più naturale nutrire gli altri piuttosto che se stessi, poiché  il bisogno dell’altro  è sempre più chiaro rispetto al proprio! Come mai? Eppure, viviamo in  un mondo dove sembra prevalere l’egoismo, dove le persone  pensano solo a sé,  dove si sgomita per raggiungere qualunque bouffet!  Nutrirsi, riconoscendo realmente di cosa si ha bisogno non è semplice,  tale percezione presuppone una conoscenza della propria interiorità  e soprattutto una consapevolezza  di quello che si ha per individuare quello che manca. Operazione di discernimento  complessa, in quanto si tende a rispondere alle  diverse necessità sempre nello stesso modo, senza diversificare, esplorando anche nuove strade. Così facendo non ci si nutre, ma ci si iperalimenta, rendendo obesa l’anima, che si fa pesante e ingombrante. Allora diventa prioritario tornare alla misura, che il materno ha insegnato e insegna come conoscenza, come riflessione e come pensiero di cura del corpo e dell’anima.

 

 

 

ECLISSI DI PRIMAVERA

ECLISSI  DI  PRIMAVERA  20 marzo 2015

Equinozio  di primavera* ed eclissi di sole. Sembra un ossimoro!  La primavera non può fare il suo ingresso  con il sole offuscato, parzialmente o totalmente,  dalla luna. Il sole dovrebbe rinascere a primavera, perché dovrebbe accorciare la sua ombra per risvegliare le gemme, ma la luna invade il campo solare per essere protagonista, almeno una volta, dell’equinozio  di marzo.

La luna, simbolo femminile,   chiede visibilità  togliendola, forse  per invitare  la coscienza degli abitanti della Terra ad una riflessione insolita, ma necessaria?  Un invito ad osservare  l’ombra della luna, in un momento storico in cui la luce abbagliante del sole, simbolo maschile, produce miraggi mortiferi?

Tra  le popolazioni primitive eventi  come  l’eclissi del sole, producevano spavento e presagi di sventure, perché ignoravano cosa realmente accadesse. Oggi le sventure accadono al di là dei presagi e a conferma di ciò è sufficiente aprire la finestra sul mondo per vedere fuochi di distruzione e sentire  echi di esplosioni.  Allora, perché non ascoltare la voce della Luna che si scomoda per indurre  nell’essere umano  la  consapevolezza di quanto possa essere effimero pensare di poter dominare il Mondo,  all’interno di un Universo infinito, che, se decide di muoversi, non lascia scampo?

Tante domande che non trovano risposte e non prevedono risposte, perché ogni essere umano è portatore di conoscenza e tutto quello che dovrebbe  sapere può trovarlo dentro di sé  tra le luci e le ombre della propria esistenza,  affinché l’eclissi non sia della  coscienza.

 

*astronomicamente cade il 20 marzo

8’AVA NOTA

                                            8’ava nota

8’ava nota, la nota delle donne. Una nota che non c’è, o forse c’è, ma bisogna saperla cercare, perché non è prevedibile e non è scontata. Difficile dire se, collocare l’8’ava nota al di fuori della scala musicale, sia una caratteristica di distinzione o meno. Sicuramente è un suono a cui bisogna educare l’orecchio, non tanto quello fisico, quanto quello psichico.

Non esiste diapason che lasci vibrare l’8’ava nota per accordare il pensiero, come non esiste metronomo che ne scandisca il tempo.

Sia il  pensiero  che  il tempo delle Donne  sono cambiati  nel corso di  centinaia di secoli, con il contributo di donne coraggiose  conosciute e sconosciute, che hanno, tutte, rivendicato il diritto di vivere nel mondo senza confini. L’8’ava nota vibra  segnando una strada invisibile su cui faticosamente camminano le donne. L’8’ava nota vibra ancor di più l’8 marzo, giorno in cui ricorre “La Festa della Donna”,   quando si  organizzano eventi per sensibilizzare l’attenzione intorno al complesso mondo femminile.

Nel 2013, sempre su questo blog, misi l’8 marzo tra parentesi (8). Oggi all’8 pongo l’apostrofo, un segno di elisione che lascia presumere che qualcosa sia caduto, per lasciare il posto ad una presenza-assenza,  come le donne che ci sono, ma non ci sono.

Per esemplificare, prendo spunto da un evento di un anno fa quando si costituì il nuovo e attuale  Governo che divideva nelle giuste percentuali i  Ministeri  tra gli uomini e le donne. L’ operazione aritmetica  venne più volte rimarcata dai mass media  come un successo della legge  per le  pari opportunità e delle quote rosa.
Bene, anzi benissimo!

Però, finché ci sarà bisogno di sottolineare il numero delle donne, la parità è lontana, perché le donne dovrebbero esserci per diritto naturale e non legislativo.

Se il mondo, maschile e femminile, fosse uno spartito musicale,  sui righi e negli  spazi del pentagramma ci sarebbe posto per tutte le note, senza discriminazioni, nel rispetto obbligato della legge dell’Armonia Musicale. Ma, ahimè, così non è. La nota femminile è l’8’ava, e non trova posto naturalmente, bisogna crearlo.

In questi giorni Christine Lagarde, Direttrice del Fondo Monetario Internazionale, ha commentato, sul suo blog, i risultati di una ricerca circa i danni del sessismo nel mondo del lavoro, evidenziando la difficoltà delle donne ad avere un ruolo economicamente attivo.  A ciò ha fatto eco anche la dichiarazione di Patricia Arquette  che durante la Notte degli Oscar ha chiesto che le attrici avessero un trattamento economico pari a quello  degli attori.

Ovviamente l’equilibrio di genere non si riduce al potere economico,  ma forse è l’aspetto più, quantitativamente, misurabile.

Donne depotenziate, quindi, affinché  l’8’ava nota risuoni piano pianissimo, senza impeto e fuoco. Per fortuna,  però, il mondo femminile il fuoco lo porta dentro di sé, vivificante e salvifico per il genere umano, al di là di un forzato equilibrio di genere.

 

DIETRO L’ALBERO DI NATALE

                               DIETRO L’ALBERO DI NATALE

 

Questo mio articolo è stato  pubblicato sulla rivista n.23/2014 di Urbis et Artis e,    in occasione del Natale,  ripropongo  per i lettori di  Thirdlife.it.

 

 

La festività del Natale è alle porte e i simboli che la caratterizzano, come il presepe e l’albero, riprendono il loro posto nelle abitazioni di chi desidera rispettare la ritualità della tradizione.

L’albero di Natale è il simbolo più rappresentato nelle case, ma anche nelle strade e  nelle piazze delle città di tutto il Mondo,  addobbato, colorato e illuminato in tutti i modi più fantasiosi, ma lo stimolo  che mi spinge a scriverne è la curiosità di conoscere  la parte in ombra dell’albero.

È raro vedere un albero di Natale, almeno nelle abitazioni, al centro di una stanza, in genere è sempre posto in un angolo o a ridosso di una parete. Tant’è che la porzione di albero che non si vede è spesso disadorna o riempita con decorazioni di scarto (tanto non si vedono!).

Ma si può essere certi della invisibilità della parte in ombra dell’albero?

Razionalmente è evidente che il segmento spoglio non  si veda, ma   l’incompiutezza si  percepisce.  Come?

In genere ci si occupa poco di tutto quello che non è visibile, per esempio la facciata di una casa che rimane interna o nascosta non è mai decorata come quelle più esterne, le cantine o le soffitte non sono mai curate come gli appartamenti,  e così altri luoghi dove non è utile “perdere tempo”   con abbellimenti se, poi, nessuno li vedrà.  A volte, però, è proprio la parte più nascosta alla luce che avrebbe bisogno di attenzione e cura,  perché lì nasce  l’ombra.

L’ombra è un termine che da una parte spaventa, ma dall’altra seduce. Da una parte può essere magica o malefica, ma dall’altra può essere miracolosa o contaminante. Un affresco del Masaccio, situato nella Cappella Brancacci della Chiesa di Santa Maria del Carmine di Firenze, riproduce San Pietro che cura i malati con la propria ombra, mentre nel film Water della regista indiana Deepa Metha  si racconta la vita delle  donne che, rimaste vedove,   vivono ai margini della società e non possono “toccare” con la propria ombra  l’acqua, senza contaminarla e renderla imbevibile.  Inoltre, produrre ombra  è un segnale  di vitalità, poiché solo i   vampiri o i defunti  ne sono privi per inconsistenza corporea.

Difficilmente pensiamo alla nostra ombra, non solo a quella sagoma nera che si proietta sulla strada quando camminiamo, ma a quella parte di noi nascosta nelle profondità interiori, che si manifesta nella imprevedibilità dei comportamenti più aggressivi e inspiegabili, che  Carl  Gustav  Jung chiamava

Ombra: il lato archetipico, oscuro, inferiore, primitivo, che tanto più è lontano dalla coscienza, tanto più dirompe con i suoi accessi più distruttivi.

A questo punto è legittima la domanda: “Tutto questo dietro un albero di Natale?”. Se l’albero fosse  una trasposizione simbolica dell’essere umano,  la risposta sarebbe sì. E,  in effetti, lo è!

L’albero  riproduce un essere umano: con le sue radici, il suo tronco e la sua chioma.

Un essere umano con la sua personalità articolata e complessa come il tronco, il suo protendersi nel mondo  con braccia tese come i rami e la sua interiorità antica e profonda come  le radici.

Aver cura della parte più buia di sé, è cercare di conoscerla per illuminarla e integrarla nella propria personalità, nella  difficile strada che conduce alla congiunzione degli opposti.

Dietro  l’Albero di Natale , quindi, ci siamo noi, esseri umani, ognuno con le proprie  luci , ombre e  vulnerabilità.  Allora, perché non provare ad avere cura della zona d’ombra dell’Albero per aver cura della propria zona d’ombra e mettere una Stella di Natale anche  nella porzione disadorna, affinché si trasformi in una vera epifania di consapevolezza e conoscenza?

 

 

PSICHE IN PRIMA FILA

                   PSICHE IN PRIMA FILA

                La psicologia incontra il Cinema

 Giovedì 20 novembre 2014 alle ore 19.30, presso la sede  di VideoAmbiente in via Ostiense 193/d a Roma,   si apriranno gli Incontri Esperienziali  di Gruppo, dedicati al cinema.

La selezione dei film è a cura delle psicologhe e psicoterapeute Sira Sebastianelli e Tina Carone  che condurranno anche gli incontri di gruppo.

Nel percorso cine-psicologico saranno proiettati film come proiezione di tematiche legate all’esistenza  per     conoscerle, affrontarle e viverle in un’altra prospettiva, perché a volte non è cambiando vita che si risolvono le difficoltà, ma cambiandone il punto di vista.

 Gli incontri  sono rivolti  a chiunque fosse interessato a migliorare la  qualità della propria vita    di relazione, lavorativa, familiare e di coppia.

 Il primo incontro sarà di orientamento e di conoscenza  e si proietterà il film “La doppia vita di  Veronica” di Krzysztof Kieslowski.    Il film narra la storia di due donne,  che pur non conoscendosi, vivono la stessa vita, ma con un epilogo  diverso, a dimostrazione di quanto la psiche sia una componente fondamentale nelle scelte salvifiche o mortifere operate dall’essere umano.

Seguiranno, con cadenza quindicinale, proiezioni di film come ad esempio  Adele H.  di Francois Truffaut, Sinfonia d’Autunno di Ingmar Bergman, Kagemusha (l’Ombra del Guerriero) di Akira Kurosawa.

Film che propongono tematiche su cui riflettere  per approfondire la conoscenza di sé.

 Il Cinema propone storie in movimento pur nella staticità dello spettatore, un paradosso che evoca quella sensazione spesso vissuta nella quotidianità della vita in cui ci si ritrova a dire “la vita mi scorre davanti e non mi sento protagonista”. Ecco, con il  cine-percorso psicologico  l’obiettivo è fermarsi per comprendere un po’ alla volta segmenti della propria esistenza, rimetterla in movimento e tornare a esserne protagonisti.

 

 

 

29 settembre 2014

29 settembre 2014

 

Il testo di una canzone recitava: “Oggi 29 settembre, seduto in quel caffè io non pensavo a te……”.

Oggi, 29 settembre,   camminando per le vie  di Roma Capitale,  ho sentito la colonna sonora che potrebbe avere  il giorno successivo ad una catastrofe, il cosiddetto  day after,  in un momento di insolito silenzio si avvertiva il  risuonare sincopato  di un bicchiere di plastica vuoto che rotolava spinto dal vento.  Per un attimo ho avuto la sensazione di essere arrivata  dopo il passaggio di una forza distruttiva aliena. Mi guardo intorno e vedo sotto l’ombra di un albero una quindicina di bottiglie di birra vuote,  rifiuti buttati   vicino e non dentro i cassonetti, un albero secco caduto in un’ area recintata in attesa di qualcuno che  ne raccogliesse le spoglie, erbacce che vanno  ricoprendo marciapiedi e strade. Tutto questo  nel raggio di cinquecento metri alle tre del pomeriggio.

Cosa era successo nelle ore precedenti al punto di affastellare tanta inciviltà, o meglio cosa non era successo?  In fondo ormai non sono più gli accadimenti a produrre la distruzione del Mondo della Natura, ma le inadempienze, il disinteresse, il senso di non farne parte, l’incuria, la delega ad entità non ben definite di provvedere allo scempio.  La sensazione è che  la cosa pubblica  venga considerata  appartenente ad un privato che non merita nessun rispetto!

Il degrado etico è un paradosso che rispecchia  il momento storico che si sta vivendo, dove qualunque espressione di sé  si esaspera, oltrepassando i limiti del rispetto della dignità del genere  umano, dimenticando di  appartenervi. Forse siamo tutti, più o meno, seduti in quel caffè senza pensare a sé stessi, oltre che all’altro.

Il blog thirdlife.it è stato concepito come un magazine  che avesse una attenzione particolare all’ambiente, essendo la casa naturale di tutti gli esseri umani, sempre più dimenticato e maltrattato. L’intento è di sensibilizzare, oltre che di offrire spunti di riflessione, per meglio comprendere la psicologia dei comportamenti degli uomini e delle donne che si spera non debbano mai abbandonare il Pianeta Terra, come nel film Wall.e,  perché sommerso dai rifiuti.

solstizio d’estate

Solstizio d’estate

 

Qualcosa cambia, nell’aria, nel cielo, tra  le fronde degli alberi trafitte dai raggi del sole e nell’alone opacizzante che avvolge la luna, in estate qualcosa cambia.

 

La sensazione è  di una impercettibile,  lenta trasmutazione della vita.

Cosa accade?

Si  oltrepassa  la porta del solstizio d’estate quando  il sole raggiunge lo zenit nella sua parabola ascendente e  avvia quella discendente.  Il vento elettrizza l’aria rendendola  rovente, il termometro sale e l’atmosfera si fa rarefatta.

 

Nulla è più chiaro come prima, le donne e gli uomini si sentono avvolti in un involucro   translucente.

Il disordine si sovrappone all’ordine smarrito e la ricerca di nuove coordinate per individuare la strada si impone.  Questa è l’estate dell’anima che attraverso le dimenticanze e i ricordi propone un alleggerimento della memoria. Sì, perché l’estate richiede un bagaglio leggero da portare con sé, per consentire movimenti esplorativi più rapidi, mentre si passa in rassegna  quanto si è affastellato nel contenitore della vita nei mesi precedenti. 

 

In questo periodo è più facile sentirsi frastornati, insofferenti di fronte alle difficoltà o agli ostacoli che si incontrano nella quotidianità. Il sole più intensifica la sua luminosità e più crea ombre pesanti che calano come macigni sulle coscienze, stupefatte da tanta energia che si trasfonde nell’Io e che dirompe, a volte,  con accessi incontrollati.   

Estate, stagione della sospensione  e della intermittenza, a volte per scelta, a volte per necessità, a volte per obbligo. L’estate è la stagione della vacatio, cioè  dell’ assenza di impegni tipicamente caratterizzanti le altre stagioni.

 

Estate, contenitore vuoto che tra desiderio e nostalgia cerca nuovi contenuti, a volte difficili da trovare.

Nella favola della cicala e della formica di Esopo,  si stigmatizzava il comportamento irresponsabile della cicala che non provvedeva alle provviste per sopravvivere all’inverno, prediligendo la spensieratezza della vita estiva, diversamente della previdente formica che insaccava la sua tana di cibo.

 

È pur vero che essere cicale non è facile, come sembrerebbe, in quanto l’estate è la stagione in cui si vive la mancanza e l’assenza della routine, che per quanto monotona riempie l’esistenza di chi incontra difficoltà, al di là di quelle economiche, ad avere relazioni amicali,  scambi sociali soddisfacenti e risorse per crearne. La sospensione e l’intermittenza  della quotidianità che l’estate porta con sé, sono spesso subite, nonostante il desiderio di viverle.  

Il termine estate nella sua radice indoeuropea (idh,edh)  significa moto che  porta luce, ma anche accendere un fuoco.  Il fuoco può portare prosperità, ma può anche essere distruttivo. Il fuoco può essere sacro, ma anche infernale.

 

Il solstizio d’estate, come scrivevo all’inizio, è una porta, che si attraversa, come una frontiera che richiede la verifica della nostra identità, di chi siamo e di chi vorremmo essere ( non sarà un caso, ma in questo periodo, più che in altri, si smarriscono o si dimenticano i documenti di identità!).  La frontiera è un confine, che decreta la fine, ma anche l’ inizio di un nuovo territorio, nel quale avventurarsi con uno spirito esplorativo e conoscitivo. Il coraggio della conoscenza ridimensiona la paura dell’incognito, spingendo avanti, per accedere a quella trasmutazione della vita che l’estate porta con sé.

 

 

cervo

Cervo, ambasciatore della Natura

 

Qualche giorno fa  sulla stampa ricorreva una foto che ritraeva  un cervo immerso nella neve, da cui fuoriusciva soltanto la testa. È stato istantaneo pensare all’immagine evocata dai versi di Dante nel XXXII Canto dell’Inferno, in cui i dannati sono immersi, fino al collo, nelle loro lacrime ghiacciate.  I dannati in questione sono i traditori di parenti! Ma i cervi, chi hanno tradito per meritare tale punizione?

La Natura, forse,  che è stata, ed è, continuamente tradita dagli umani (suoi parenti!),  ha   inviato un emissario, capace di salvarsi dalla trappola della neve,  come monito a chi  non sarebbe, ugualmente, capace di salvarsi?

 

La scelta del cervo, tra l’altro non è casuale. Il cervo,  è simbolicamente associato all’albero della vita,  per avere le corna che si rinnovano continuamente.  Il cervo rappresenta la fecondità, la crescita e la rinascita, oltre ad essere l’animale  consacrato ad Artemide o Diana, dea della caccia. Artemide, “selvaggia dea della natura”   puniva severamente uomini e donne che   le mancavano  di rispetto, ma proteggeva chi le era fedele. Oggi, difficilmente si mostra fedeltà alla Natura, profondamente tradita, sfruttata, espropriata e negata. La Terra, infatti,  sta sprofondando negli abissi , sta  desertificando, sta  asfissiando, in pratica  sta scomparendo. Ogni giorno si assiste al sacrificio di animali che non riescono a vivere, perché deprivati del loro habitat, ma nulla accade, affinché  si possa avviare una inversione di tendenza globale alla distruttività in atto. Di fronte al “nostro” cervo ambasciatore, intrappolato, tante persone  si sono commosse, ma poche si sono sentite responsabili  di quella sofferenza. Spero non ci sia bisogno di invocare la dea Artemide perché si capisca  che le donne e gli uomini della Terra non rispettando la Natura  non rispettano se stessi!

 

 

capodanno

2013…..2014

 

 

È preferibile scrivere sull’anno vecchio che muore o sul nuovo anno che nasce?

 

L’ultimo o il primo? 

 

Tendenzialmente è più facile protendersi verso il futuro, buttandosi alle spalle ciò che è stato e pensare a tutti i buoni propositi da realizzare  nel nuovo anno. È pur vero che la sensazione di essere nel nuovo anno dura qualche giorno, perché la routine quotidiana ripristina fedelmente lo stile di vita e di pensiero del vecchio anno, relegando i buoni propositi in un anfratto nascosto della memoria.  Sicuramente non viviamo un’ epoca che alimenti le speranze per un cambiamento, tanto che mantenere ciò che c’è  è  considerato un successo, ma quando si pensa al cambiamento dovremmo alludere, soprattutto, al punto di vista con cui guardiamo il mondo in cui viviamo, con tutto il suo contenuto tangibile.

 

Allora, ultimo o primo?

 

Senza l’ultimo non ci sarà il primo. L’ultimo  giorno muore, ripiegandosi su se stesso come una pianta  per rilasciare  i semi  nella terra, da dove nascerà una nuova vita. Senza ciò che abbiamo vissuto, non ci potrà essere ciò che vivremo, la continuità aiuta a non riporre troppe speranze in un rinnovamento magico, ma a coltivare i semi che potranno produrre e realizzare i progetti desiderati.

 

Il passaggio dal vecchio al nuovo, è racchiuso nel rituale simbolico della eliminazione di oggetti che non servono più, in passato defenestrati fisicamente sulle strade sottostanti, fortunatamente oggi non più in uso, ma che procurava, probabilmente, una efficace separazione catartica dal vecchio. Utile sarebbe fare spazio dentro di sé, oltre che fuori, per accogliere il nuovo, affinché trovi spazio per crescere. 

 

La notte di Capodanno, in genere, ha come sinonimo la notte di San Silvestro, essendo il Santo che la Chiesa annovera il 31 dicembre, chiamato “Confessore”.

Ecco, forse per ricavare il giusto spazio per accogliere il nuovo, riuscendo a buttare il vecchio, potrebbe essere proficuo vivere nell’ultimo giorno un momento di introspezione. Un ripiegamento su se stessi  per confessare   i progetti in sospeso che vorremmo portare a termine o che dovremmo rivedere o che dovremmo rinnovare nel nuovo anno, insieme alle paure, che rallentano la loro realizzazione, per   poterle conoscere e poterle vivere entrandoci dentro, attraversandole. 

Così come attraversiamo la vita, attraversiamo le paure per avviarci ad accogliere il nuovo come una vera epifania.