L’ATTESA TRA DESIDERIO E DELUSIONE
L’ATTESA TRA DESIDERIO E DELUSIONE
La promessa di rivedere con più flessibilità la riforma Fornero del 2011 (che ha elevato l’età per andare in pensione) da parte dell’attuale governo Renzi, rimodulandone i limiti dell’età di uscita dal lavoro, sembra non essere stata rispettata, almeno a quanto si legge sulla stampa in questi giorni. Una nuova doccia fredda per tutte le donne e gli uomini che speravano in un cambiamento dei limiti d’età per raggiungere l’obiettivo pensione. Già nel 2011, commentando, in un’intervista sulla stampa, da un punto di vista psicologico la legge Fornero, evidenziai i rischi probabili che l’aspettativa negata del desiderio di cambiare vita e di vedere realizzati i sogni di un meritato riposo, si sarebbero potuti produrre sulla salute psico-fisica delle persone. Le conseguenze possono investire la sfera vitale di una persona che vede la propria progettualità implodere insieme alla speranza di cambiamento, per l’impatto con il muro delle logiche dell’ economia e della finanza internazionale che massificano le differenze e le diversità di ognuno.
Il lavoro dà dignità, ma non averne il riconoscimento del limite dà disperazione. L’impotenza attiva passività che va a nutrire una vena depressiva di cui non è possibile prevederne la profondità. La pensione riguarda persone che hanno raggiunto già i sessant’anni d’età, ciò significa che le risorse per reagire alle avversità o all’imprevisto non sono le stesse che si potrebbero avere a trenta o a quarant’anni. A volte il lavoro è usurante, poco o per nulla gratificante, ripetitivo, che sollecita aggiornamenti tecnologici spesso frustranti per chi non ne ha più l’elasticità mentale, perché, allora, prolungarlo per tempi psicologicamente incongrui? Perché non lasciare che sia facoltativa la decisione di elevare i propri tempi per andare in pensione, considerando che le differenze tra il lavoro e gli individui che lo svolgono sono innumerevoli? Anche la differenza di genere non va trascurata, le donne, per esempio, sono, nel corso della loro vita, impegnate su più fronti (lavoro, casa, figli, genitori anziani,etc.), e più cresce l’età più cresce il loro desiderio di recuperare il tempo per se stesse.
La qualità di vita andrebbe tutelata ad ogni costo, perché la vita è una, ed è un diritto viverla come si desidera dopo trenta e più anni di lavoro. Purtroppo, con l’età che avanza cresce anche il rischio di soffrire di patologie che appesantiscono la quotidianità lavorativa con ripercussioni inevitabili sul benessere generale. Il dilemma “lavorare per vivere o vivere per lavorare” dovrebbe trasformarsi nell’ affermazione “poter vivere anche dopo avere lavorato”.
Sira Sebastianelli
psicologa psicoterapeuta